Sulla sentenza Tricom/Galvanica PM c’è ancora molto da dire…
Assemblea partecipata, lo scorso 30 settembre, alla sala comunale di Tezze sul Brenta.
Promossa dal nostro Comitato, si è svolta una serata di esposizione e commento, una “contro-lettura”, delle motivazioni della sentenza che ha mandato assolti, “perché il fatto non sussiste”, titolari e dirigenti della Tricom/Galvanica PM di Tezze sul Brenta per la morte degli operai a causa di malattia professionale.
Che quella sentenza fosse vergognosamente di parte (padronale), era chiaro a tutti. Addentrarsi però nelle sue 72 pagine consente di cogliere concretamente i passaggi attraverso i quali il giudice Deborah De Stefano del tribunale di Bassano è giunta a quel verdetto; verificarne la validità, smontarne le false pretese tenico-scientifiche, dichiararne l’assoluta infondatezza.
Coadiuvati dai periti di parte che ci hanno assistito in questi anni, abbiamo pertanto illustrato pubblicamente le nostre valutazioni.
Significativa l’affermazione con la quale si è chiusa la relazione: “sembra che in questa vicenda processuale non ci siano stati degli errori causali, ma tutto sia stato predeterminato in una certa direzione”.
Una sentenza precostituita, che non poteva essere diversa.
1. La documentazione dell’Arpav di Bassano era precisa sia per i livelli ambientali che per quelli organici: cromo VI (esavalente) e nickel erano presenti nel sangue e nelle urine prelevati prima e dopo il turno di lavoro. Più volte era stata raccomandata la modifica delle spaventose condizioni di lavoro. Raccomandazioni che mai sono state raccolte.
Nei documenti dello Spisal di Padova si segnalavano, purtroppo inutilmente, i valori di riferimento accettabili ai quali l’azienda avrebbe dovuto attenersi.
Tutto ciò nella sentenza è stato completamente ignorato. Eppure, nell’art.437 del c.p., dal titolo “rimozione ed omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro”, si dice: “chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati ad impedire disastri od infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni; se dal fatto deriva un infortunio o un disastro la pena è della reclusione dai 3 ai 10 anni”. Siamo convinti che nella causa Tricom c’erano elementi sufficienti per l’applicazione di almeno questa parte del diritto penale.
Viene completamente ignorata la possibilità di organi-bersaglio, diversi dall’apparato respiratorio, che la stessa IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, autorevole organismo indipendente accreditato a livello internazionale) indica come possibili: stomaco, intestino, cute, prostata, reni, vescica.
Studi compiuti da consulenti delle grandi compagnie produttrici di cromo sostengono(ovviamente) che il cromo VI, una volta ingerito, viene rapidamente ridotto a cromo III (trivalente) e quindi inattivato dal sistema organico (De Flora igienista di Genova). Ma non è mai stato dimostrato che il materiale organico sia in quantità sufficiente da ridurre il cromo VI. Altrimenti, per quale motivo il cromo VI è tuttora considerato dalla IARC cancerogeno per via orale di categoria 1?
Emerge una prima considerazione. Esiste una massa enorme di falsi dati prodotti da ricercatori finanziati dalle grandi industrie che mostrano una diminuzione del rischio addirittura un effetto protettivo: ad esempio, l’uso del cellulare, per alcuni di questi, protegge dal rischio di tumori alla testa e, per altri, riduce il rischio di tumore all’intestino, al pancreas, allunga la vita, evita l’infarto… Dati che possono essere capovolti da affermazioni che non hanno alcun fondamento scientifico, come nel caso di questa sentenza.
2. Per quanto riguarda l’esposizione professionale, nella sentenza si fa una doppia operazione: prima si definisce che il cromo VI è cancerogeno, poi si afferma che, in questa situazione, i valori-soglia prelevati nei lavoratori sono inferiori ai livelli considerati pericolosi. Anche qui, i valori-soglia cui si fa riferimento derivano da letteratura scientifica costruita da “associazioni autodefinite indipendenti, in realtà di origine industriale” (Casson, “La fabbrica dei veleni” pg 42).
ACGIH e NIOSH, agenzie private americane fissano i valori limite del cromo su soglie molto più alte di quelle della IARC.
Nella sentenza si fissano valori mille volte più alti di quelli stabiliti dalla IARC, un’affermazione inesistente nella letteratura scientifica
In realtà, è certo che i livelli documentati alla Tricom non potevano che produrre effetti lesivi.
I dati sulle condizioni di lavoro documentano anche rilevanti esposizioni al nickel. Nella sentenza si nega l’esposizione e la cancerogenicità del nickel, col pretesto di non averne appurata la specie, quando, nelle cromature, è risaputo viene usato il solfato di nickel, un sale sicuramente cancerogeno (IARC).
3. La sentenza richiama velatamente l’aspetto genetico: il fatto che tra gli operai deceduti vi fosse chi ha avuto un fratello morto per tumore. E’ un’indicazione respinta dalla letteratura scientifica.
Si afferma che hanno vissuto in contesti urbani, per cui l’esposizione all’aria può aver contribuito al tumore. Infine, si introduce il problema dell’abitudine al fumo di tabacco. I periti del tribunale sostengono ci sia un’indipendenza di causa tra il cromo e il fumo di tabacco, concludendo che, probabilmente, anche se gli operai non fossero stati esposti al cromo, si sarebbero comunque ammalati. Ma non esiste alcuna prova scientifica che documenti l’inesistenza di interazione tra cromo e fumo di tabacco, tranne quell’unico studio “di parte” già citato (De Flora). Esistono invece dati di letteratura scientifica che dimostrano una interazione di tipo sinergico (moltiplicativo) di cromo e nickel con il fumo di tabacco, e tra cromo e nickel. L’interazione non può assolutamente essere esclusa.
4. Nella sentenza si negano le prove scientifiche che dimostrano che in quella situazione l’eccesso di rischio è dovuto all’ambiente di lavoro e non al fumo di tabacco. Queste prove vengono prodotte nell’indagine epidemiologica disposta dal giudice stesso (CTU Crosignani). Anzi, la sentenza ignora ingiustificatamente il peso dell’indagine epidemiologica (tre, in epoche diverse). Il rischio di chi lavorava alla Tricom, sostengono queste indagini, è dovuto all’interazione,(che è non somma ma moltiplicazione), dell’azione congiunta del fumo con l’esposizione lavorativa al cromo, al nickel, quest’ultimo completamente trascurato. La sentenza quindi nega le prove scientifiche che dimostrano che in quella situazione l’eccesso di rischio è causato dall’ambiente di lavoro, non al fumo di sigaretta.
Infine, che significato può avere la riesumazione dei cadaveri, disposta dal giudice a 10 anni e più dalla morte, quando si continua a sostenere che l’esposizione al cromo è ininfluente e il nickel non viene valutato? Oltretutto, il cromo VI accumulato nei polmoni per esposizione può, nel tempo , abbassarsi nei livelli. Non c’era alcun bisogno di fare queste misurazioni.
Quando, nonostante l’accertato eccesso di rischio presente nell’azienda, documentato dai danni alla salute e confermato dalle ispezioni dell’ARPAV e da ben tre perizie epidemiologiche, si arriva a una simile sentenza, c’è qualcosa che non funziona nell’impostazione del processo: il superamento dei livelli di sicurezza è evidente, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Tutte queste considerazioni erano già state dette e scritte nel corso della prima fase del processo, ma sono state completamente tralasciate dal giudice.
La sentenza fa un’operazione molto contraddittoria: fissa livelli di soglia a propria discrezione, rimuove il problema dell’interazione, esclude il dato che emerge dallo studio epidemiologico e, assumendo il criterio della colpa “oltre ogni ragionevole dubbio”, procede all’assoluzione.
Una sentenza inaccettabile e una nuova minaccia
alle condizioni di sicurezza nel lavoro.
Dalla documentazione risulta che già 20/30 anni addietro vi erano elementi per considerare che i cancerogeni presenti in Tricom stavano creando le premesse per lo sviluppo dei tumori. Nel 1981, presso l’allora pretura di Bassano del Grappa, viene emessa una significativa sentenza. Si tratta di un procedimento che chiama in causa una trentina di imprenditori locali, accusati di omissioni a vario titolo: mancanza di tutele per la sicurezza nei luoghi di lavoro, sversamento di rifiuti industriali nella roggia adiacente lo stabilimento (pratica molto diffusa in quegli anni, anche in Tricom), mancanza di protezioni, non ottemperanza delle prescrizioni di controllo sanitario per i lavoratori.
Tra gli imprenditori sul banco degli imputati, quasi tutti assolti o condannati a lievissime pene pecuniarie, si trova anche Adriano Sgarbossa, rappresentante legale, all’epoca, della Tricom spa. Viene accusato di aver “omesso di munire gli scarichi dello stabilimento di efficaci impianti depuratori, riconosciuti idonei dall’autorità competente” e “aver attivato un insediamento industriale compreso nell’elenco delle industrie insalubri del ministero della Sanità, senza avere dato preventivo avviso al sindaco del luogo”. Chi era all’epoca il sindaco in questione lo sappiamo tutti, Rocco Battistella, coimputato nel processo appena concluso. Adriano Sgarbossa viene ovviamente assolto, con la formula “il fatto non costituisce reato”.
La documentazione che abbiamo riportato in sintesi è molto precisa su questo punto: più volte l’azienda era stata invitata a regolare la propria situazione, inutilmente. Se fossero state apportate quelle migliorie agli impianti di depurazione, si sarebbe potuta evitare questa tragedia? Potremmo girare questa domanda al giudice De Stefano.
Questa sentenza abbassa drammaticamente i livelli di attenzione generale sulle condizioni di lavoro, sulle malattie professionali, sull’avvelenamento ambientale.
Tante, troppe circostanze puntano il dito sulla proprietà e direzione dell’azienda, ma anche sulle istituzioni preposte al controllo sanitario dell’ambiente e dei lavoratori, per la scarsità e superficialità dei controlli di routine e delle indagini svolte, sulle istituzioni politiche (locali e non solo), sul tribunale di Bassano.
Il tribunale in particolare ha affermato in modo netto che giustizia non vi è stata e non vi sarà, semplicemente “il fatto non sussiste”.
Siamo chiari: nostro dovere ed impegno è far pagare loro il costo politico più alto possibile, minarne la credibilità politica, istituzionale, professionale affinché nessuno possa uscirne in maniera altrettanto disinvolta che nel passato.
Il segnale che emerge dalle motivazioni è molto chiaro: continuare a garantire condizioni di massimo profitto alle aziende, favorire l’aumento di precarietà e dei ritmi di lavoro, mettendo in secondo piano le normative di sicurezza, a scapito della tutela di salute ed incolumità di lavoratori e di quanti vivono in zone di impianti industriali ad elevato rischio.
A garantire l’impunità ci pensano le sentenze.
Proprio per questo abbiamo rumorosamente protestato davanti al tribunale dopo la lettura della sentenza, convinti che quel giudizio non era assolutamente accettabile.
La tempestiva e sbrigativa denuncia per minacce e imbrattamento che ne è seguita rappresenta per noi è una preziosa occasione che ci viene offerta per tenere alta la tensione, per promuovere altre iniziative, per allargare il fronte di lotta, ricordando che i lavoratori che muoiono sul o di lavoro sono in crescita nel nostro paese, e che il vero, unico cancerogeno è il profitto.
Questi morti sono il costo da pagare ai padroni per farli uscire dalle loro crisi, per le loro “riprese”, per il loro “ciclo virtuoso”.
Il processo che si terrà contro di noi a Trento il prossimo 12 dicembre è una tappa importante di questo percorso: intendiamo organizzare un presidio di lotta di fronte al tribunale di Trento in quel giorno.
La vicenda Tricom ha superato le colonne d’Ercole del bassanese: la notizia di questa vergognosa sentenza di assoluzione ha raggiunto comitati ed associazioni di lavoratori, che chiedono incontri e offrono solidarietà concreta, non pelosa. Saremo presenti in diverse pubbliche assemblee: a Mestre il 19 novembre, a Padova il 26 novembre, a Trento il 5 dicembre. In quelle occasioni verrà proiettato un video prodotto da nostro comitato. Altre assemblee sono in programma.
Unità nella solidarietà e nella lotta!
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Tezze sul Brenta e Bassano del Grappa
Nessun commento:
Posta un commento